Cristo "smaschera" il primo hater

Il racconto dell’adultera, un gioiello di narrazione, resta un mistero dal punto di vista testuale, storico e letterario.  La scena si sviluppa nel Tempio, dove Gesù – seduto per terra – svolge la sua funzione di maestro. Gli viene condotta una donna, sorpresa in adulterio, con l’unico scopo di metterlo alla prova, di incastrarlo. L’adultera era lo strumento perfetto per verificare l’ortodossia di Gesù nei confronti della legge e la sua coerenza con quanto affermava nella predicazione.

Ai quei tempi la disposizione era chiara: pena di morte per l’uomo e la donna adulteri. La conferma ci arriva da due testi biblici: «Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte» (Lv 20,10); «quando un uomo verrà trovato a giacere con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che è giaciuto con la donna e la donna. Così estirperai il male da Israele» (Dt 22,22).

La logica dichiarata in questa teologia era quella di estirpare il male facendo fuori chi lo commetteva: argomentazione non del tutto scomparsa in molti pseudo-cristiani. Del complice della donna nel testo, però, non c’è traccia e al cospetto della folla inferocita troviamo soltanto lei: «La posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio”» (Gv 8,3-4).

La donna è accerchiata da uomini che richiamano fieri la durezza della legge: «Sola con tutti gli occhi puntati su di lei, sguardi pesanti come macigni che la scrutano, che la invadono e la colpiscono prima ancora delle pietre. Sguardi insistenti e morbosi»[1].

Scribi e farisei domandano a Gesù: «Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (Gv 8,5).

C’è una psicologia che sottende ogni lapidazione: la raffica simultanea di pietre serve soltanto a fare in modo che nessuno sappia chi ha scagliato quella fatale. In questo modo nessuno potrà sentirsi un assassino, un carnefice. Gesù usa, però, una strategia efficace perché ogni uomo contagiato dall’odio si assuma la propria responsabilità. Si alza e dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra» (Gv 8,7-8).

Frantuma le certezze della folla, si rivolge al singolo, fissando l’attenzione sul testimone dell’adulterio, quello col compito di lanciare per primo la pietra: «La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire. Poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te» (Dt 17,7). Cristo conferma la legge (il primo testimone dovrà lanciare la pietra), ma aggiunge che per compiere quel gesto occorre qualcosa di impossibile: essere senza peccato.

Nella riflessione girardiana, la prima pietra è fondamentale, la più problematica da lanciare perché l’unica a non avere un modello di riferimento: «Essa è decisiva, perché la più difficile da scagliare. Ma qual è il motivo di questa difficoltà? Il motivo è che la prima pietra è la sola a non avere modelli. Quando Gesù pronuncia la frase, la prima pietra è l’ultimo ostacolo che impedisce la lapidazione. Attirando l’attenzione su di essa, menzionandola esplicitamente, Gesù fa il possibile per rinforzare l’ostacolo, per metterlo in risalto. Più coloro che pensano di scagliare la prima pietra si rendono conto della responsabilità che si assumerebbero con il loro gesto, maggiori saranno le possibilità che questa pietra cada loro di mano» [3].

Gesù fa precedere la sua risposta da un gesto: «Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (Gv 8,6). Per nulla banale l’interpretazione del pensatore René Girard: «Non è allo scopo di scrivere – penso – che egli si china a terra, è perché è chinato che si mette a scrivere. Gesù fa così per evitare lo sguardo di questi uomini, i loro occhi iniettati di sangue. Se Gesù ricambiasse il loro sguardo per quello che è veramente, lo trasformerebbero in uno specchio della loro collera: essi non leggerebbero negli occhi di Gesù un’intenzione pacifica ma la loro stessa sfida, la loro stessa provocazione, e si sentirebbero provocati. Un confronto diretto non potrebbe più essere evitato e questo con ogni probabilità implicherebbe ciò che Gesù si sta sforzando di impedire, la lapidazione della vittima. Gesù evita, dunque, anche solo l’ombra di una provocazione»[4].

Occorre comprendere sempre di più le conseguenze degli sguardi e delle pietre d’odio sul web, non sottovalutando mai il primo hater. È necessario smascherare la perversa illusione di non essere dei boia perché convinti di essere una parte in­significante, microscopica della folla inferocita: proprio il no­stro insulto, tra diecimila, potrebbe indurre la nostra vittima alla depressione, persino al suicidio.

Non è banale, dunque, pensare alla prima pietra, al primo modello-hater: è necessario contrastarlo immediatamente. Di fronte alla prima invettiva contro qualcuno, a maggior ragione nel contesto dei social, non dobbiamo rimanere indifferenti.

Sull’esempio di Gesù, occorre intervenire anche quando chi è “posto in mezzo” è oggettivamente colpevole. Se crediamo nel messaggio di Cristo, se vogliamo innescare un contagio non violento, bisogna evitare a ogni “peccatore” la gogna mediatica: «Salvare la donna adultera dalla lapidazione come fa Gesù, impedire un contagio mimetico di tipo violento, significa in­nescare un processo inverso, un contagio non violento. Il primo individuo che rinuncia a lapidare la donna adultera se ne trascina subito dietro un secondo, e così via. Alla fine è l’intero gruppo che, sotto la guida di Gesù, abbandona il suo progetto di lapidazione»[5].  

Le parole di Gesù sono efficaci: gli accusatori «udito ciò, se ne vanno uno per uno, cominciando dai più anziani» (Gv 8,9). Il loro giudizio diventa una sorta di boomerang, si ritorce con­tro di loro. La folla è disintegrata, vanno via «uno per uno». Ciò vuol dire che ognuno, dal più anziano al più giovane, ha compreso il proprio limite: l’essere peccatore. Forse il gesto di scrivere per terra richiama proprio la terra-polvere come ori­gine e destino dell’uomo: «Polvere tu sei e in povere ritornerai» (Gen 3,19); oppure il passaggio da una legge scolpita sulla pie­tra (le tavole donate a Mosè furono incise sulla pietra «dal dito di Dio» (Es 31,18; Dt 9,10) a una più malleabile del pren­dersi cura, della misericordia: «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero» (1Sam 2,8). Finalmente Gesù e la donna si ritrovano da soli, fuori dal giudizio della folla: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo» (Gv 8,9). L’adultera è di nuovo “in mezzo”, ma non accerchiata. Di fronte alla paura, alla fragilità, Gesù si alza: può finalmente intravedere uno sguardo d’amore.

A questa donna vulnerabile il Messia rivolge una domanda che la interpella: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condan­nata?» (Gv 8,10) La chiama donna come ha chiamato Maria a Cana e al Calvario (cfr. Gv 2,4; 19,26), così come la Samaritana (cfr. Gv 4,21) e Maria Maddalena (cfr. Gv 20,15).

Ai suoi occhi non è più un’adultera, una peccatrice, ma una donna impaurita e fragile. Lei risponde: «Nessuno, Si­gnore» (Gv 8,11). Davanti alle parole di vita di Gesù, fa un’im­plicita professione di fede che la colloca dentro un nuovo percorso. Il Messia non la identifica con il gesto compiuto: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). «Va’ e non peccare più» è un invito perché intra­prenda una strada nuova: Cristo non la condanna, desidera soltanto una sua rinascita.

Gesù sfida la folla, rischia la propria vita, spinto dal deside­rio di rigenerare una peccatrice accerchiata. Il Dio delle vittime ci invita a non essere spettatori vigliacchi dei linciaggi virtuali, compresi quelli orchestrati da presunti giornalisti o blogger, anche perché il pericolo di fare la stessa fine è dietro l’angolo: «Se nell’episodio evangelico della donna colta in fla­grante adulterio la folla non si fosse lasciata convincere da Gesù e la lapidazione avesse avuto luogo, Gesù avrebbe rischiato di venir lapidato a sua volta. Non riu­scire a salvare una vittima minacciata di linciaggio, ri­trovarsi da soli al suo fianco, significa correre il rischio di fare la stessa fine: si tratta di un principio valido per tutte le società arcaiche. I Vangeli ci dicono che nel pe­riodo precedente la Crocifissione Gesù sfugge a diversi tentativi di lapidazione»[5].  

Giuseppe Pani

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[1] L. Maggi, L’evangelo delle donne. Figure femminili nel Nuovo Testa­mento, Claudiana, Torino 2010, 50.

[2] R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2002, 83-84.

[3] Ivi, 87-88.

[4] Ivi, 84.

[5] Ivi, 87.