Paghiamo con i nostri dati

Lo scopo delle piattaforme social e in generale delle applicazioni web che utilizziamo pluri-quotidianamente è il business. Google, Facebook, LinkedIn, Instagram, Twitter, Snapchat, Tik-tok, WhatsApp, Telegram intercettano e soddisfano le nostre esigenze informative, sociali, di auto-narrazione, d’interazione e di relazione erogando servizi apparentemente gratuiti. “Apparentemente” perché, in realtà, li “paghiamo” con i nostri dati, ovvero offrendo a queste piattaforme, più o meno consapevolmente, la possibilità di tracciare, memorizzare e utilizzare abitudini, gusti, scelte. Il business sta tutto qui. Usando questi dati le piattaforme sono in grado di offrire agli investitori pubblicitari la “personalizzazione perfetta” del loro messaggio.

D. Chieffi, La reputazione ai tempi dell'infosfera. Cos'è, come si costruisce, come si difende, Franco Angeli, Milano 2020. 

L'esperienza umana è in crisi

L’esperienza umana è, oggi, in profonda crisi e trasformazione in relazione alla complessa e intricata collocazione dell’umano dentro le tecnologie digitali e artificiali di rete che operano – e questo è il punto chiave – sempre più separate e lontane dai modi umani della consapevolezza come l’attenzione, la percezione e la coscienza. E paradossalmente, mentre noi cerchiamo di replicare nelle macchine le nostre dinamiche sensoriali, le macchine ci stanno progressivamente allontanando proprio da quei processi. Mentre diciamo che le macchine non hanno coscienza, loro lavorano perché questa divenga irrilevante.

C. Accoto, Il mondo dato. Cinque brevi lezioni di filosofia digitale, Egea, Milano 2017.


dismorfia da Snapchat


Quando ci si fa un selfie e più in generale una fotografia gli interventi scattano automaticamente già mentre si inquadra il volto grazie agli algoritmi che presiedono alla definizione dei visi e alla loro ottimizzazione. E poi soprattutto si agisce volontariamente e liberamente quando si applicano i filtri per avvicinare l’immagine dello schermo al modello ideale, con esiti variabili tra cui è frequente l’insoddisfazione e quindi il disagio che può generare problemi psicologici anche gravi. Il termine coniato per indicare questa patologia è «dismorfia da Snapchat». Per il Manuale Diagnostico Statistico delle Malattie Psichiatriche (DSM) il disturbo di dismorfismo corporeo fa parte dello spettro del «disturbo ossessivo compulsivo e disturbi correlati». Questa patologia si palesa con un’eccessiva preoccupazione, oggettivamente eccessiva, nei confronti di una parte o di un difetto fisico del proprio corpo, difetto che per la maggior parte delle persone sarebbe trascurabile. Una concausa di questi disturbi è probabile che risieda nell’uso della fotografia e del selfie per la verifica del proprio stato.

Antonio Nizzoli, Narcisi nella rete. L'immagine di sé nell'era dell'immagine, Mondadori Education, Milano 2021.

Quello che sa tutto


I bambini un tempo pensavano che i genitori sapessero tutto, perché anche se non lo sapevano riuscivano a tirare fuori qualche risposta plausibile lì sul momento o guardavano in un libro prima di andare a letto per simulare una conoscenza universale il mattino seguente.
Ora i bambini vedono i loro genitori immergersi in Google per scoprire quali sono i nomi delle lune di Giova o le esatte ragioni scientifiche per l'olio galleggia sull'acqua. Imparano da subito che i loro genitori non sanno tutto, ma internet, ah, internet sì che sa tutto.

Pamela Paul, 100 cose che abbiamo perso per colpa di Internet, Il Saggiatore, Milano 2022.

Delegare ai soli dati
non è la soluzione

 

Da quando l’essere umano ha assunto la posizione eretta ha liberato le mani, ha scritto simboli, sviluppato il linguaggio, accudito più a lungo i suoi piccoli dando loro un vantaggio competitivo. Tutto ciò ha fatto esplodere le nostre capacità cognitive. Ora stiamo delegando a Iasima[1] alcune funzioni cognitive, manuali e ripetitive. Noi vorremo che con sempre più dati e un basso costo del calcolo, tramite il cloud computing evitassimo di concentrarci sui nostri fini. Certo è che in un momento di confusione e incertezza crescente, pieno di dati da interpretare, delegare è la via più comoda, ma non è mai la soluzione.

Massimo Chiriatti, Incoscienza artificiale. Come fanno le macchine prevedere per noi, Luiss, Roma 2021.



[1] Termine con il quale l’autore indica la personificazione dell’intelligenza artificiale, un oggetto che si fa soggetto.




Le lacrime si estendono


Per iniziare a piangere dobbiamo darci per vinti, perdere il controllo, spesso capitolare per gli altri: far prevalere in noi la sofferenza o la gioia del prossimo.

Il copyright di sofferenze e felicità altrui diventa sorprendentemente nostro: emozioni che versiamo, facciamo fluire al di là di noi stessi.

Le lacrime prorompono dalle pupille e, allo stesso tempo, si spargono, si diffondono. Arrendendosi alle emozioni, si “estendono” per vocazione, escono sofferenti o felici dai nostri occhi per diventare universo: gocce che cercano sempre l’altro, soprattutto ciò che è assolutamente Altro.

Giuseppe Pani

Le immagini sono modelli


Oggi le immagini non sono solo riproduzioni, ma anche modelli. Ci rifugiamo nelle immagini per essere migliori, più belli, più vivi. Per accelerare l'evoluzione, ci serviamo evidentemente non solo della tecnica ma anche delle immagini: è possibile che l'evoluzione si basi fondamentalmente su un'immaginazione?
Che l'Immaginario sia costitutivo per l'evoluzione? Il medium digitale completa che rovesciamento iconico che fa sembrare le immagini più vive, più belle, migliori rispetto alla realtà percepita come imperfetta.
Le immagini vengono prese in ostaggio dal Reale: per questo oggi siamo iconoclasti malgrado, o proprio a causa, del profluvio di immagini.

Biyung - Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Milano 2015.

Siamo artisti fragili


Colpisce constatare il nesso tra la fragilità, i limiti esistenziali
degli artisti e la loro capacità di produrre capolavori.
Molti pittori sono fragili, ma capaci di creare miracoli artistici. Ad esempio,Vincent van Gogh dipinge la Notte stellata internato probabilmente in un ospedale psichiatrico. I pittori, e in generale tutti gli artisti, hanno una coscienza della fragilità e del limite differente. Limes, che significa via traversa, sentiero che fa da confine, nella loro visione è il “limitare”, cioè la pietra trasversale che sta sotto e sopra la porta di casa: la soglia, l’ingresso; quindi, in senso traslato, principio, nuovo inizio, rinascita, risurrezione.
Ciò che li “de-limita”, lo spazio ristretto della loro vita o tela, non appare ai loro occhi bloccante e frustrante, ma costruttivo e creativo; anzi, ciò che li “de-finisce” li rende unici, li fa esistere.

Giuseppe Pani