L’anima non avrebbe arcobaleni se gli occhi non avessero lacrime

Osservando il mondo non vediamo altro che testimonianze di un continuo “rinascere”: la primavera che – con puntualità o meno – ritorna ogni anno; l’aurora che illumina il giorno dopo il buio della notte; l’odio che si trasforma in perdono; la morte di un uomo e contemporaneamente il vagito di un bimbo che nasce. L’eccentrico professor Bartleboom, personaggio creato dalla penna di Alessandro Baricco, afferma: «Sapete, è geniale questa cosa che i giorni finiscono. È un sistema geniale. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c’è del genio. E là dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo»[1].

Chi non riesce a vedere questa elementare realtà non ha perso la fede, ma semplicemente la memoria. La memoria è un tema sviluppato dalle neuroscienze, ma "ricorda" (in ebraico zakhor) nella Sacra Scrittura è l'invito che Dio ripete più spesso. Ad esempio, in Isaia 44,21 leggiamo: «Ricorda tali cose, o Giacobbe, o Israele, poiché sei mio servo. Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me». Il Signore ci comanda di "fare memoria".

Il secolo scorso passerà alla storia come il tempo della rimozione della morte. I vari annunci della morte di Dio non hanno reso quest’ultimo inesistente; anzi, hanno moltiplicato gli dèi, aperto migliaia di strade a pericolosi idoli. Oggi si parla di rimozione della nascita, come risentimento derivante dal fatto di non riconoscere più le proprie radici e, più estremamente, dall’essere stati posti in vita senza un nostro consenso, anticipando ogni atto della volontà personale. A nostro parere, ciò presuppone inevitabilmente anche una rimozione della ri-nascita.

Lo sguardo su Cristo, invece, ci esorta a unire nascere e morire alla luce di un terzo verbo, risorgere, fondamentale per la comprensione di che cosa significhi vivere in pienezza l’esistenza. In questa vita, almeno una volta, siamo stati crocifissi, ma poi siamo rinati, "risuscitati", diventando una prova vivente del mistero pasquale.

In Scientia Crucis, Edith Stein evidenzia che la sofferenza non è da ricercare per se stessa, ma – allo stesso tempo – la crescita spirituale in Cristo è imprescindibile dalla morte del nostro vecchio “io”, in modo da rinascere più attenti ai bisogni del prossimo. «In qualità di uomini e donne, non siamo tanto esseri viventi inesorabilmente destinati alla morte. È più corretto affermare che siamo esseri mortali costituzionalmente chiamati e protesi alla vita. Tra tutti i “viventi”, infatti, soltanto l’uomo è in senso vero e autentico “mortale”, consapevole cioè della propria strutturale caducità, segnata per di più dal potere del peccato che lo separa da Dio, rompe la comunione col fratello e lo lascia in se stesso lacerato. In quanto “mortale”, l’uomo è proteso, proprio perché chiamato, alla vita vera, alla vita risorta, cui può accedere mediante una nuova nascita che comporta il morire a se stesso»[2].

Quando, però, ci sentiamo impotenti di fronte alle nostre sofferenze – o a quelle delle persone che amiamo – si materializzano disperazione e dubbi: la fede, d'altronde, resta sempre un atto umano. Ma è anche vero che la disperazione può condurre alla speranza più vera, non a un astratto ottimismo. Quando nasce in un contesto di disperazione, la speranza tiene sempre conto della realtà, della situazione contingente. Commentando la Passione secondo Giovanni, Paolo Scquizzato fa notare che la frase «chinato il capo, consegnò lo spirito risulta essere fisiologicamente errata: chi muore emette l’ultimo respiro e poi china il capo. Qui succede il contrario. Ma è così che funziona l’amore: riceve [...] l’odio che lo fa morire e lui dona l’amore più grande, perché l’amore dà il massimo di sé solo quando viene ferito»[3] .

«L’anima non avrebbe arcobaleni se gli occhi non avessero lacrime», recita un antico proverbio Minquass. La fede autentica, dunque, nasce tra disperazione e speranza: «Se sappiamo che è in Dio che soffriamo e periamo, che siamo gettati sopra Dio, legati a Dio, e perciò tolti e portati da Dio, appunto questo fatto è la confermazione della fede, che attende tutto da Dio e da Dio tutto, la dimostrazione esemplificata, l’incoraggiamento a sperare sempre di nuovo, che ci viene offerto proprio a quella porta dove si perde ogni speranza»[4]. Pensiamo, ad esempio, alla morte di Lazzaro, amico intimo di Cristo (cfr. Gv 11,1-44). A Marta, sorella di quest’ultimo, Gesù annuncia: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). Prima la risurrezione (particolare non trascurabile) e poi la vita, poiché soltanto passando attraverso la morte – e risorgendo da essa – è possibile accedere alla vita vera. Gesù, infatti, non ci salva dalla morte, ma nella morte: morendo lui stesso, e facendo passare anche noi attraverso le nostre morti quotidiane, ci spalanca – anche su questa terra – le porte della vita eterna; infatti, aggiunge: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).

Cristo ci accompagna verso la luce, anche quando sembrano prevalere le tenebre. Persino quando la morte bussa nella nostra famiglia, portandoci via chi abbiamo amato profondamente: «Possiamo iniziare a costruire una nuova vita quando arriva la morte. Possiamo uscire per cercare nuovi amici anziché rannicchiarci in noi stessi, feriti e arrabbiati, aspettando che qualcuno venga da noi. Possiamo concederci di amare nuovamente, sapendo che l’amore riveste forme e figure diverse. Possiamo permetterci di coltivare nuove gioie e nuovi interessi»[5]. L’alternativa è quella di finire a un passo dalla follia. 

La speranza cristiana è totale quando vive la fede nella risurrezione di Cristo, nella risurrezione della sua e nostra carne, così come diciamo nel Credo. Severino Dianich sintetizza così questo concetto: «La speranza cristiana è [...] un processo esistenziale, vissuto sul modello di Gesù, di Dio-carne, nel quale l’uomo trova la speranza per la propria carne e cioè la speranza sulla sua finitezza, ma in forza di questo orizzonte ulteriore, quello divino in cui si muoveva la carne di Cristo, Figlio di Dio nella sua vita umana»[6].

«Volgi il tuo viso verso il sole e l’ombra si troverà sempre alle tue spalle», affermano i nativi della Nuova Zelanda. La speranza non sta nell’attendere che le cose “fuori” di noi migliorino come per incanto. Sta nel costruire all’interno di noi un rapporto più autentico con quello che accade nella nostra anima; nel tenere duro anche quando il moto delle nostre lacrime è così devastante da indurci a pensare che sia inutile lottare; nell’aprirci al Dio della novità, affidandogli un oltre, un futuro che non possiamo vedere.

Appena risorto, Gesù pensa ai discepoli. Lo hanno abbandonato, ma per lui sono sempre i “suoi” discepoli: li ha amati «sino alla fine» (Gv 13,1), al compimento, e li ama anche in un nuovo inizio. La risurrezione è il trionfo di un duplice amore: quello del Padre che non abbandona il suo Figlio nella morte, e quello di Gesù che non lascia da soli i suoi: sa che le loro lacrime non cesseranno mai di scorrere, ma – allo stesso tempo – li invita (e ci invita) a guardare oltre, facendo sempre memoria delle ferite della vita.

Buona Pasqua!

Giuseppe Pani



[1] A. Baricco, Oceano mare, Rizzoli, Milano 1993, 35.

[2] G. Depeder, Nascere, morire, risorgere. Suggestioni cristologiche, in «CredereOggi» 3 (2012), 81.

[3] P. Scquizzato, La ferita e la luce: 40 meditazioni per spiriti inquieti, Effatà, Cantalupa (TO) 2021, 180. Edizione del Kindle.

[4] K. Barth, L’epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 2002, 133-134.

[5] J. D. Chittister, Segnati dalla lotta, trasformati dalla speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006, 171.

[6] S. Dianich, La speranza cristiana nella risurrezione, in C. B. Busato Barbaglio ~ A. Filippi (a cura di), Disperare e sperare, morire e risorgere, EDB, Bologna 2013, 123.