Non riusciamo più a comprendere ciò che è complesso

La moltiplicazione dei dispositivi e la diffusione universale della connessione hanno reso i contenuti prodotti dai media snackable, cioè veloci da consumare e semplici da condividere. Tutto questo è considerato dai più un dato acquisito e positivo, ma comporta anche un rischio: l’anestetizzazione della com­prensione profonda rispetto a ciò che è complesso; infatti, la pretesa di granularità naturale, lo “spezzatino” dei contenuti del digitale ha dei limiti evidenti. Se usato come guida alla scelta e alla generazione di risorse di apprendimento, il pericolo è per­dere di vista la dimensione di maggiore complessità e articola­zione strutturale da cui la nostra analisi ha sempre origine.

Smontare e decostruire concetti e pensieri è interessante, ma solo se siamo capaci di rimontarli e rifabbricarli, di ripro­porne la loro complessità originaria. I concetti e i pensieri sono troppo intricati per pensare di gestirli come facciamo con i mattoncini Lego: non abbiamo più gli strumenti intel­lettuali, la sensibilità, la capacità di metterli insieme per far sì che assomiglino vagamente a qualcosa di logico.  Non concepiamo più nemmeno la nostra vita come un’unità narrativa, una storia lunga e complessa; d’altronde, per quanto tempo restano visibili le Instagram o TikTok stories? Solo ventiquattro ore, qualcosa di effimero: ephémera in greco significa “per un solo giorno”, termine che ha dato il nome anche un ordine di insetti, le effimere, la cui vita è brevissima. In realtà, l’origine di tutto questo non è nella rete, ma nella televisione; i talk show sono da decenni degli spezzatini: si passa con disinvoltura dal gossip alla politica e ogni perso­naggio in studio pare avere autorevolezza. Gli approfondi­menti sono ridotti all’osso perché non importa formare alla complessità lo spettatore. Inoltre, la TV è solo in apparenza un mezzo democratico; riduce, invece, il nostro senso critico fino a farci diventare esclusivamente spettatori passivi, inferiori rispetto agli ospiti superiori del dibattito televisivo. Lo sosteneva già Pier Paolo Pasolini in una famosa intervista rilasciata a Enzo Biagi: «Alcuni spettatori che culturalmente, per privilegio so­ciale, ci sono alla pari, prendono queste parole e le fanno loro, ma in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, le più sincere. Io non parlo di noi in questo momento alla televisione, parlo della televisione in sé come mezzo di comunicazione di massa. Ammet­tiamo che questa sera ci sia con noi anche una persona umile, un analfabeta, interrogato dall’intervistatore. La cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene data come da una cattedra. Il parlare dal video è parlare sempre ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità».

Nel cyberspazio viviamo come isole all’interno di un arci­pelago di relazioni fantasiose e non sempre siamo attrezzati culturalmente e psicologicamente per affrontarle e conviverci. La stessa informazione ci presenta una prospettiva, una sele­zione di fatti che appaiono seri e profondi perché hanno la sembianza della globalità e dell’istantaneità. Basterebbe una pausa di riflessione per capire che spesso si tratta soltanto di fake news, ma la tentazione di essere i primi a vedere e a condividere castra in partenza l’analisi, l’attendibilità della fonte: siamo passati dall’homo sapiens a un nuovo tipo di essere umano, l’homo videns.  Meglio dedicare anche qualche giorno alle verifiche, piut­tosto che pubblicare – nei nostri profili, siti o blog – notizie e osservazioni inesatte.

Gli algoritmi sono di certo utili (sono stati creati per evitare errori nella ricerca), ma rischiano di mortificare l’approfondimento, il confronto, il conflitto frut­tuoso tra ipotesi:  «Per tutto il corso della storia umana, la creazione della conoscenza è stata un faticoso processo di tentativi ed errori. L’uomo elaborava una teoria sul funzionamento del mondo, poi studiava le prove per capire se la sua ipotesi stava in piedi o crollava una volta esposta alla realtà. Gli algoritmi ribaltano il metodo scientifico, per­ché gli schemi emergono dai dati, dalle correlazioni, non sono guidati dalle ipotesi. Insomma, l’uomo viene completamente rimosso dal processo di indagine. In un articolo scritto su Wired, Chris Anderson sostiene che “possiamo smettere di cercare dei modelli: possiamo analizzare i dati senza fare ipotesi su cosa dimostrino. Ci basta buttare i numeri nei più grandi cluster di ela­borazione mai esistiti al mondo e lasciare che gli algo­ritmi statistici trovino schemi che la scienza non riesce a trovare”» (F. Foer).


Giuseppe Pani