Teologia e tecnologia per il bene comune

La strada che guida alla rilevazione della scienza come esercizio, attività dell’uomo integrale, in generale non è scorrevole. Lo è ancora meno in un certo mondo filosofico-teologico ottuso, rigido, seminatore di un sterile dogmatismo religioso, e da sempre pronto a crearsi avversari da combattere. In superficie, o nei tunnel sotterranei di alcuni ambienti, prevale tutt’oggi l’anacronistico dualismo tra sapere umanistico e sapere scientifico. La scienza ha un peso culturale enorme nelle nostre vite: è totalizzante a livello di vita e indirizzi di pensiero, ma in sostanza si continua a percepire la realtà soltanto attraverso alcune specifiche filosofie, fedi religiose, ideologie [1].

La mente avida di alcune filosofie e teologie, marcatamente controintuitive, porta a distogliere l’attenzione da ciò che c’è di più limpido nelle nostre esistenze: il vissuto quotidiano, il reale ordinario. La realtà ci dice che scienza e tecnologia hanno fatto passi da gigante in questi ultimi anni, impattando fortemente sulla nostra vita professionale e personale: comunicazione, formazione a distanza, nuovi mezzi di trasporto, ecc.

Alcuni filosofi e teologi pretendono ancora di risolvere tutto ciò che riguarda l’esistenza attraverso argomentazioni articolate e sofisticate. Le imponenti costruzioni concettuali finiscono sempre per complicare le questioni anziché far sì che si manifestino per quello che sono, cioè semplici cose, come dimostrano il buon senso e l’esperienza quotidiana. Proprio per il fatto di essere "semplici" hanno necessità di essere meditate, evitando così di dare tutto per scontato [2]. Scienza e tecnologia non possono essere demonizzate o intese soltanto come strumenti: sono invece “luoghi” di riflessione filosofica, teologica, antropologica, sociologica, psicologica, ecc.

Alcuni ritengono ancora valido il cosiddetto muro cartesiano [3], cioè «quella barriera che permette di dividere la realtà in ambiti distinti, in discipline distinte, in modo che il metodo stesso non debba dare conto di sé di fronte a discipline che non potrebbe spiegare – Dio, tanto per fare un esempio – e che permetta, allo stesso tempo, agli scienziati di tendere alla larga dai loro oggetti di analisi preti e moralisti, teologie e filosofie di vario genere» [4]

Al di là dei suoi limiti, il metodo ha permesso a ognuno di coltivare il proprio orticello o giardino. Anche la teologia ne ha tratto i suoi vantaggi e, purtroppo, continua a trarne. Quando gli orticelli/giardini sono separati occorre soltanto presidiare i propri confini. Se un filosofo o teologo cercherà di fare una veloce incursione nello spazio della scienza e della tecnologia, la reazione sarà quella di bloccare le sue velleità espansionistiche. Medesimo atteggiamento si avrà nei confronti dello scienziato quando integrerà, a detta di alcuni illegittimamente, le sue ricerche approfondendo etica e metafisica. Illegittimità sbandierata da alcuni filosofi e teologi che soffrono di nevrosi del senso di direzione: l’illusione di ritornare indietro in un mondo ormai proiettato in avanti. Per quanto comodo, il muro cartesiano è stato superato da tempo: le neuroscienze hanno spostato il loro raggio d’azione oltre il “muro”, ma nemmeno per queste ultime è semplice “abitare” alcuni luoghi inesplorati [5]. Dopo secoli di letteratura, poesia, indagini filosofiche e psicologiche, non si può spiegare l’innamoramento soltanto con un neurotrasmettitore. È vero che le aree del cervello risultano maggiormente attivate nell’amore romantico perché contengono grandi concentrazioni di dopamina (un neurotrasmettitore che viene rilasciato dall’ipotalamo ed è associato con il desiderio), attività che giustifica il nostro stato di euforia, ma guai a considerarla come l'unica spiegazione. Malgrado questa evidenza, gli "esperti dello spirito" non devono accusare le neuroscienze di colonialismo.

Oggi la strada da percorrere non è quella della difesa dei confini, ma la consapevolezza di lavorare tutti in un unico spazio a servizio del bene comune. Non si può negare la condizione tecno-umana con la quale l’uomo media da sempre la propria esistenza, la sua interconnessione con l’ambiente attraverso gli artefatti tecnologici. Non è possibile separare l’avventura del mondo dalla storia degli strumenti che l’uomo ha creato e continuerà a realizzare. La narrazione storica ci insegna che a ogni innovazione tecnica è corrisposta una mutazione antropologica, aprendo a nuove opportunità e, allo stesso tempo, facendo nascere nuovi interrogativi e suscitando dubbi.

Si può andare incontro alla tecnologia attraverso tre forme: a) semplice: ci viene richiesto di migliorare, “allargare” le nostre capacità manuali (saper usar un cacciavite, un martello, ecc.); b) automatica: l’automatizzazione di dati e regole e che abbiamo introdotto (pensiamo a una calcolatrice o a un robot); c) autonoma, quando essa determina delle regole che ha appreso autonomamente con la nostra licenza: un esempio è l’Intelligenza Artificiale (IA), soprattutto quella generativa.

Credere, però, di essere – attraverso macchine cognitive e IA – all’apice dell’evoluzione è ingenuo e pericoloso. Alcune ideologie vedono nell'uomo un essere imprigionato nella sua fisicità e materialità, scartando qualsiasi richiamo alla sua componente trascendente e spirituale.

È inaccettabile l’idea transumanista di un homo novus tecnologico in grado di raggiungere la perfezione assoluta, esercitare un controllo totale sulla propria evoluzione, modellare a proprio piacimento il proprio corpo, sostituire le mutazioni casuali con una morale automatica, ultra-razionale. Per evitare estremismi è necessario ricreare un’alleanza tra scienza, nuove tecnologie e fedi religiose: «Sembra non esserci dubbio sul fatto che la scienza è in grado di condurre i suoi praticanti più profondi e coerenti a un tipo di esperienza che merita di essere definita incontro personale con l’assoluto. […] La percezione di Dio nella natura realizzata per via scientifica è lo sbocco finale di una lunga ricerca, il risultato di una lunga attesa e di un impegno coerente in risposta all’intelligibilità del reale. Infatti, ciò che qui è in questione va bel al di là della comune comprensione scientifica della natura. È una percezione che l’intelligenza scientifica può conseguire soltanto attraverso un’interiorizzazione profondamente meditativa» [6].

La vera scommessa, quindi, è stare al passo con l’evoluzione di macchine cognitive, conoscerne meglio le nuove tecnologie e, contemporaneamente, accompagnare la coscienza dell’umanità perché abbracci senza traumi e troppi rischi questa nuova era. 

L’obiettivo è creare un’armonia: «Un’onda del mare e la formula matematica che ne descrive il moto non sembrano avere nulla in comune. L’esempio ripropone il problema dell’intelligibilità delle cose, della presenza di un’armonia, di una possibilità di comprendere il comportamento della natura da parte della mente umana, consentendo di formulare leggi e regole. Un’armonia che incanta lo stesso uomo di scienza» [7].

Dobbiamo, dunque, prendere atto di abitare un tempo di work in progress: la somma temporanea dell’evoluzione biologica, scientifica, tecnologica, culturale, teologica e spirituale – all’interno di mutamenti tecnologici velocissimi –  non trova mai una sua pienezza. 

Viviamo all’interno di una trasformazione che non sta creando un uomo nuovo, ma del nuovo nell’uomo.


Giuseppe Pani

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[1] Cfr. E. Agazzi, Problemi di epistemologia contemporanea, in «Itinerari», 1-2, 5-8.

[2] Cfr. G. Pezzano, Pensare la realtà nell'era digitale: Una prospettiva filosofica, Carocci Editore, Roma 2023, 29. Edizione del Kindle.

[3] Cfr. L. Paris, Teologia e neuroscienze. Una sfida possibile, Queriniana, Brescia 2017, 12-13.

[4] Ivi, 13-14.

[5] Cfr. Ivi, 18.

[6]  E. Cantore, L'uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza, EDB, Bologna 2021,182.

[7] G. Cucci, Scienza e spiritualità in dialogo. Per un’antropologia integrale, in «La Civiltà Cattolica», 4165 (2024), 31.