Transumanesimo, limite e fragilità

Agganciandosi allo scientismo e a una tecnologia senz’anima, il transumanesimo lavora perché si crei una nuova realtà socio-culturale. Questa corrente filosofica o movimento intellettuale, infatti, spera che gli uomini aumentino le proprie capacità fisiche e cognitive per eliminare ciò che fonda l’umano: la fragilità. Si propone di cancellare tutto ciò che viene considerato un limite: la disabilità, la malattia, la vecchiaia, la morte.

Per realizzare questo progetto sono ovviamente necessarie le innovazioni tecnologiche emergenti: ingegneria genetica sull’uomo, IA, nanotecnologia, neurofarmacologia, clonazione, bionica, crionica [1] e sviluppo di comunicazioni avanzate. Da una parte il transumanesimo si collega all’umanesimo classico impegnandosi per il progresso, ponendo al centro l’uomo e la ragione; dall’altra se ne distacca in modo netto ponendo il suo focus sulla possibilità dell’enhancement, parola inglese che si può tradurre con «potenziamento», «implementazione», «accrescimento».

Uno dei più grandi teorici del movimento transumanista, il filosofo Fereidoun M. Esfandiary, ha cambiato nel 1998 legalmente il suo nome in FM-2030 con questa motivazione: «Il nome 2030 riflette la mia convinzione che gli anni intorno al 2030 saranno un momento magico. Nel 2030 saremo senza età e tutti avranno un’ottima possibilità di vivere per sempre. Il 2030 è un sogno è un traguardo» [2]. Un passaggio, quindi, dall’homo sapiens all’homo techno-sapiens.

All’interno di questa rappresentazione non sembra prevalere una riflessione sulla dialettica desiderio-limite tipica dell’uomo saggio. Il desiderio-limite è quella dimensione nella quale l’uomo nasce, vive, matura, scoprendo di essere indigente, di non bastare a se stesso: la consapevolezza dei propri limiti, infatti, evita il delirio d’onnipotenza, un’immagine errata di libertà, la bramosia, la prevaricazione sull’altro e la pretesa di auto-salvezza. Il limite-fragilità, invece, è il nostro destino: possiamo detestarlo perché ci impedisce di sentirci più forti, oppure accoglierlo per sentirci più umani e in comunione col Creato.

Nascere e morire: il limite al centro 

Percepita come un momento di gioia e speranza, la nascita rivela la nostra costitutiva fragilità: ogni vita che nasce è già destinata morire, porta la morte inscritta nel suo stesso essere. Vivere è qualcosa che si dilata nei giorni e il morire è qualcosa che già sperimentiamo. La morte non è cronologicamente definibile, non è puntuale; anzi, ci sono parti del nostro corpo che iniziano a morire ancora prima del nostro ultimo respiro: «La consapevolezza della finitezza della nostra esistenza, che ci viene rivelata dal nostro trovarci “gettati” nel mondo, porta con sé pure la consapevolezza della nostra morte. Se è vero che esistere significa appropriarci delle nostre possibilità sulla base di un progetto che ci appartiene e nel quale ci riconosciamo, è anche vero che ogni nostro progettarci, ogni nostro “tendere verso”, ogni nostro trascenderci è destinato irrimediabilmente al “naufragio”. Il naufragio definitivo, quello che racchiude tutti gli altri e che rivela la radicale finitezza dell’esistenza, è appunto la morte» [3]. Da evitare ovviamente una certa spiritualità cristiana, sponsorizzata anche da qualche media cattolico molto “ascoltato”, che continua a dare una risposta semplicistica e inaccettabile al patire e al morire: «Quanto più soffri, tanto più ti redimi». Una fede più autenticamente biblica non svuota mai la sofferta realtà del morire esaltandola con la promessa del Paradiso; piuttosto, l’assume pienamente, ne porta il tragico peso soprattutto quando ci si trova di fronte a una morte violenta, prematura o causata da una malattia. La fede biblica valorizza la vita: “vivere” significa essere in relazione col prossimo, la comunità e Dio. Chi sperimenta la morte non si deve sentire condannato da Dio, semplicemente sperimenta in modo drammatico la fragilità, l’assenza di relazione. Gli incontri di Cristo risorto sono accompagnati da segni concreti, come nel noto episodio dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-53). Perché il gesto dello “spezzare il pane”, del mangiare insieme? Per togliere alla morte ciò che di essa spaventa maggiormente: «L’assenza di relazione, l’interruzione del rapporto con se stessi, con gli altri, con Dio. Alla luce della fede questo è possibile attraverso la via della solidarietà, dell’essere vicino: mantenendo viva la relazione, fatta di prossimità» [4]. L’uomo deve accettare se stesso, non oltrepassare i limiti nel suo relazionarsi con l’altro, non invadere lo spazio personale del prossimo: «L’antropologia del limite considera il limite come la fonte di un’incolmabile indigenza. Da questo punto di vista l’uomo si presenta ai nostri occhi come un mendicante dell’essere. [...] In questo senso il limite non impoverisce, dato che, essendo fonte di indigenza, è al tempo stesso la radice di un’immensa apertura. Questa chiamata all’essere si realizza nella dimensione della relazione. L’essere relazionale dell’uomo è solo una conseguenza del suo essere nel limite» [5].

L’espressione più nitida dell’indigenza è la comunicazione. Siamo unità narrative, abbiamo bisogno di raccontarci. Allo stesso tempo, abbiamo necessità di ascoltare le storie degli altri: «L’afflizione deprime il cuore dell’uomo, una parola buona lo allieta» (Pr 12,25).

Il termine biblico che indica il corpo, basar (letteralmente carne), ha un significato teologico non solo biologico: indica l’uomo vulnerabile e fragile la cui esistenza è distinta da quella divina. In uno dei racconti della creazione, Dio soffia il suo spirito nel corpo dell’uomo: l’essere umano è “animato” dallo spirito (ruah). A differenza degli altri esseri viventi ha un privilegio: questa animazione si realizza attraverso un particolare “bocca a bocca”. Chi, dunque, vuole realizzare l’apertura dello spirito umano verso il divino non ha necessità di innalzarlo, deve piuttosto umiliarlo, avvicinarlo all’humus della carne ricordandosi che ogni relazione è “questione di cuore”: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26). Sin dall’inizio Dio pone il limite al centro dell’uomo, non ai margini. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «L’albero vietato, che designa il limite dell’uomo, si trova al centro. Il limite dell’uomo è il centro della sua esistenza, non al margine: il limite cercato al margine dell’uomo riguarda le sue condizioni, la tecnica, le possibilità. Il limite che è al centro è il limite della sua realtà, della sua esistenza come tale. Nella conoscenza del limite ai margini è implicata sempre la possibilità di un’interiore assenza di limiti; nella conoscenza del limite al centro si tratta di un limite che riguarda tutta l’esistenza, l’umanità in ogni possibile manifestazione» [6]


Superpoteri, opere potenti e un Dio fragile 

Il telos dei transumanisti è, invece, quello di diventare perfetti grazie a dei “superpoteri tecnologici”. In tal senso, esiste un sostrato culturale già nei fumetti e nella cinematografia: alcuni supereroi sono “postumani” perché i loro poteri sono implementati dalla tecnologia. Emblematico il caso di Batman: non ha alcun superpotere e combatte il male attraverso la sua finissima intelligenza e con il supporto di tecnologie avanzate. Per Scott Jeffery i supereroi dei fumetti e dei film non sono altro che l’immaginario popolare del transumanesimo e postumanesimo. In effetti, i corpi di diversi supereroi sono il "prodotto" di manipolazioni tecnico-scientifiche, di pericolosi programmi militari, di interventi medici o di “infortuni” sul lavoro [7].

Al centro della fede cristiana c’è, invece, il crocifisso, un Dio “fragile” che si lascia colpire e coinvolgere dalla sofferenza, che non pensa come noi per forza al miracolo: «È un Dio che non fa più miracoli, e soprattutto non fa il miracolo per eccellenza, il prodigio che davvero avrebbe accreditato Gesù come Figlio di Dio, perché è il miracolo che gli era stato chiesto con insistenza dai capi dei sacerdoti e dagli scribi: “Il Cristo, il Re d’Israele, scenda ora giù dalla croce, affinché vediamo e crediamo!” (Mc 15,32). Proprio quel miracolo decisivo e risolutivo, che avrebbe fugato tutti i dubbi sull’identità di Gesù e avrebbe spianato la via alla fede in lui anche da parte di coloro che finora lo avevano contestato, Gesù non l’ha fatto» [8]. Anzi, arriva un momento in cui Dio decide di non compiere più prodigi per mostrarsi scandalosamente vulnerabile: «Ne ha fatti tanti, Gesù, di miracoli, ma nessuno in favore suo, come sarebbe stata la trasformazione delle pietre in pane quando ebbe fame dopo quaranta giorni di digiuno; il diavolo glielo suggerì, ma Gesù rifiutò, come rifiutò di scendere dalla croce, perché anche questo sarebbe stato a suo favore, mentre tutti i suoi miracoli sono a favore degli altri. Negli evangeli i miracoli sono spesso chiamati, non a caso, "opere potenti", manifestazioni della potenza divina di Gesù» [9].

Nel momento, però, più alto del suo donarsi, Cristo non compie "opere potenti", sceglie di diventare debole, fragile. Come agli inizi della sua vita: niente, infatti, è più fragile di un Dio-neonato.

L'esistenza di Cristo è segnata da due momenti di fragilità totale: la nascita e la morte.


Giuseppe Pani

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[1] Disciplina che studia la conservazione dei corpi a bassissime temperature in interazione con dispositivi elettronici o di altro tipo.

[2] Fm-2030, All Things Considered, in «National Public Radio», 7 luglio 2011.

[3] V. Bortolin, Antropologia del nascere e del morire, in «CredereOggi», 3 (2012), 34.

[4] A. Toniolo, Nascere e morire. Da enigma a mistero, in «CredereOggi», 3 (2012), 70.

[5] B. Borsato, Etica dell’imperfezione. L’uomo e il suo limite, Editrice Monti, Saronno (VA) 2013, 34-35.

[6] D. Bonhoeffer, Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Gen 1-3, Queriniana, Brescia 2010, 73-74.

[7] Cfr. S. Jeffery, The Posthuman Body in Supehero Comics. Human, Superhuman, Transhuman, Post/Human, Palgrave Macmillian, New York 2016.

[8] P. Ricca, Debolezza e onnipotenza, in B. Salvarani (a cura di), La polvere e il soffio – La fragilità dell’uomo – Debolezza e onnipotenza, EDB, Bologna 2017, 28.

[9] Ibid.