Violenza e media: immagini che ci impediscono di pensare
Abbiamo una relazione così intima con la violenza che la sua presenza non pare più turbarci: non siamo più consapevoli di quanto odio impregni molte delle nostre azioni quotidiane. L’aumento dello spettacolo della visibilità ha fatto sì che le immagini violente abbiano perso la loro capacità evocativa, cioè il riferimento all’altro. I giornalisti inviati a documentare una guerra uniscono alle immagini un commento; pur mostrando sequenze di morte, attraverso la loro voce portano un messaggio di verità (almeno così speriamo), lo condividono perché possiamo farci un’idea del dramma di un conflitto, del dolore delle vittime innocenti. La filosofa Marie -José Mondzain ci spiega che un’immagine, però, diventa ancora più violenta quando impedisce a un soggetto di pensare, «non ha altro fondamento che l’abolizione intenzionale – o non intenzionale – del pensiero e del giudizio»[1]. Atteggiamento tipico dei regimi totalitari dove si vuole il controllo su tutto e su tutti: «Il discorso del dominatore sottomette lo sguardo al visibile e lo fagocita nel consenso»[2]. Spesso, infatti, non è un’immagine a espandere aggressività: essa stessa subisce la violenza perché esibita in maniera omologata. Defraudata di più sguardi, le viene misconosciuta la capacità di educare, di formare le coscienze, di captare ciò che si nasconde oltre il visibile.
Ecco perché il Cristianesimo ha introdotto la Parola all’interno dell’immagine; l’ha svincolata dal pensiero unico di morte, donandole uno sguardo d’amore verso gli altri, di salvezza, di redenzione: «È quello che accadde con il sacrificio di Cristo, poiché egli, che è l’immagine visibile del Padre irrappresentabile, permette di accedere a tutte le immagini in modo salvifico, divenendo così ciò che meno gli assomiglia: un morto»[3].
Difendere l’immagine significa vivere una prossimità autentica anche nell’infosfera: «Difendere l’immagine vuol dire resistere a tutto quello che elimina l’alterità degli sguardi. [...] La forza dell’immagine è commisurata alla potenza delle voci che la abitano. Non è un caso che le immagini di guerra mobilitino, ormai inevitabilmente, i produttori di immagini. Si parla ormai quotidianamente di guerra delle immagini, poiché la violenza delle situazioni di aggressione è immediatamente messa in relazione con la gestione del visibile e la diffusione dei discorsi. Le battaglie trasmesse sugli schermi invitano i cittadini a pensare il visibile e l’invisibile come temi decisivi per l’analisi politica. Si rende, dunque, assolutamente necessario prendere sul serio la formazione degli sguardi, poiché ogni guerra al giorno d’oggi offre l’occasione per iniziare una guerra al pensiero stesso»[4]. Dobbiamo dare vita a un nuovo, e contemporaneamente antico, umanesimo del «vedere condiviso».
Pur differenziandosi l’una dell’altra, le varie teorie sulla violenza non la cancellano del tutto dall’orizzonte dell’analisi. Da una parte, c’è chi afferma che dev’essere espulsa dalla nostra vita sociale; dall’altra, si accetta la sua presenza, purché gestita da istituzioni, dando per scontato che le leggi possano assicurare una convivenza pacifica, un processo di socializzazione.
La
violenza, invece, si camuffa, ciclicamente viene elevata persino a sistema
politico; lo stesso benessere economico non ha vinto la violenza: il tanto
sbandierato potere taumaturgico del mercato globale ha fallito. Passa il tempo, ma la violenza resta sempre la
stessa ed è sempre contro l’uomo. Nelle nostre chiacchiere giornaliere, ma
anche in una certa letteratura specialistica, il concetto di violenza ha
progressivamente moltiplicato i suoi riferimenti focalizzando l’attenzione su
fatti concreti (le vicende di cronaca, i delitti del momento accompagnano le
nostre giornate sui social e in TV), tralasciando la riflessione antropologica,
sociologica, filosofica, psicologica e teologica più profonda.
Giuseppe
Pani
Immagine: https://it.freepik.com/
[1] M.J. MONDZAIN, L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis, EDB, Bologna 2017, 47.
[2] Ivi, 62.
[3] Ivi, 29.
[4] Ivi, 136-137.